Vado, mi vendico e torno. Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas e il fascino degli eroi vendicatori
Non bastava la messa in onda il mese scorso su Canale 5 del film “Il Conte di Montecristo” con Pierre Niney, Pierfrancesco Favino, Anais Demoustier. Adesso la Rai esce con una miniserie in quattro puntate diretta dal premio Oscar Bille August, sempre ispirata al davvero intramontabile romanzo di Dumas, in cui il ruolo dello sfortunato protagonista è assegnato all'attore britannico Sam Claflin.
Stupisce
un po’ questa passione per i classici che qualcuno vorrebbe far credere morti,
sepolti, mummificati e, di sicuro, non più in grado di avere nulla da dire all’uomo
moderno. Stupisce, ma non può, del resto, che fare piacere.
“Il
conte di Montecristo” è, in fondo, una di quelle storie che fanno appello ai
sentimenti più profondi dell’animo umano: amore, invidia, disperazione, odio.
Dentro questa storia, prima o poi, ci siamo stati tutti, anche se in mille modi
diversi.
Il
motivo centrale della vendetta è però quello più evidente e forse quello che
più avvince: il lettore del romanzo/lo spettatore del film non riesce a fare a
meno di augurarsi che il povero Edmond Dantes si vendichi a suo piacimento
degli amici che l’hanno tradito e che alla fine, magari, possa riprendersi l’amore
della donna che gli è stata sottratta con l’inganno.
Vendicarsi
non è bello e neppure etico, eppure, com’è come non è, l’idea che esista una
forma di “giustizia” che ripari i torti della vita continua affascinare. A
partire da Odisseo, il primo grande vendicatore della storia, che, tornato a
Itaca dopo vent’anni, progetta e assapora la vendetta su chi aveva approfittato
della debolezza altrui: i Proci che, forti della loro numerosità e delle loro
armi, avevano tiranneggiato per anni Penelope e Telemaco, una vedova sola con
un figlio ragazzino.
La
situazione di Edmond Dantes ripercorre in parte quella di un Ulisse moderno: dopo
quindici anni ricompare, quando tutti lo danno per morto da tempo, per punire
coloro che l’hanno fatto soffrire con altrettante sofferenze.
Giunge
da chiedersi i motivi del revival odierno della figura dell’eroe vendicatore,
figura che, evidentemente, ben lungi dall’essere datata, si rivela, anzi, per
quello che è: un classico, un’idea del nostro immaginario che abita nel
profondo del nostro animo.
Guardando
la serie TV tratta dal romanzo di Dumas, l'attenzione è sperò
attirata anche da un altro aspetto: il valore dell’amicizia e l’importanza che gli
altri hanno nelle nostre esistenze.
Tradito,
ingannato, denunciato, condannato dai presunti amici/compagni Danglars e
Mondego, il protagonista Edmond Dantes ritrova la forza di sperare e
sopravvivere nel suo compagno di prigionia, l’abate Faria che, letteralmente,
lo consegna a una nuova vita, non solo fornendogli un’istruzione nei lunghi
anni in carcere, ma anche indicandogli il luogo del tesoro di Montecristo.
Con
l’abilità dei grandi narratori, Dumas sintetizza la metaforica e concreta
rinascita di Dantes nella sequenza in cui lo sfortunato prigioniero viene
gettato in mare al posto di quello che si crede essere il cadavere dell’abate
Faria, per poi riemergere dalle onde, come da una sorta di battesimo alla vita.
Gli
altri possono ucciderci e ridarci alla vita. Possono essere la nostra
dannazione o il nostro riscatto, dice Dumas.
E questo
è un altro dei fattori del successo della storia: l’idea che nella vita ci
possa essere una seconda chance, una possibilità far andare diversamente le
cose rispetto a quanto accaduto. Così Dantes, dopo quindici interminabili anni
di disumana prigionia, si presenta ai suoi carnefici con un nuovo se stesso,
trasformato nel favoloso Conte di Montecristo, ricco, elegante, ammaliante, da
sconfitto divenendo il vincitore che invertirà i rapporti di forza fino allora
esistenti.
Basterà
per ritrovare la felicità perduta?