Mai avrei creduto di incontrare la discordia proprio qui, a Vallorgana, dove il peso del mondo si immaginerebbe che sia lieve, e il vivere essenziale e senza scorie, e le leggi umane, antichissime, sempre giuste e ottimamente operanti. Infida. Sleale. Subdola. Meschina. Così sarebbe stata la discordia destinata a imperversare, per mesi e mesi, nelle mie giornate, disseminandole di insensatezze, consumando il tempo, infettando e viziando ogni cosa.
L’ultimo erede della
decaduta dinastia dei Cimamonte, ricco, senza parenti e senza alcun concreto
progetto per il futuro, si è stabilito a vivere nella villa gentilizia dei suoi
avi a Vallorgana, un immaginario paese di mezza montagna, dove amministra, per
quanto nelle sue capacità, le tenute che appartengono da secoli alla sua
famiglia. Il Duca, come viene chiamato dagli abitanti del paese (non senza una
punta di ironia e provocazione), si aspetta dalla vita in un luogo “dove il
peso del mondo si immaginerebbe che sia lieve”, la possibilità di un tranquillo
tran-tran: nulla di importante, nulla, di ingarbugliato, “nessuno strappo alla
quotidianità”, ma solo un “restare in sospeso e lasciarsi pian piano scivolare
nel giro delle quotidiane occupazioni”.
Ma un giorno viene a
sapere che Mario Fastreda, il vero feudatario in pectore del paese, l’uomo che
tutti venerano e servono, gli contende il possesso di tre ettari di bosco,
essenziali per realizzare un progetto, destinato a favorire tutta Vallorgana,
di creazione di una malga in montagna e della strada necessaria per arrivarci.
Il Duca, contro ogni sua
volontà e aspettativa, si trova così coinvolto in una lunga e complessa faida
di paese, in cui odi inveterati e interessi di parte mettono in discussione non
solo la sua tranquillità, ma soprattutto il senso delle sue non-scelte. Costretto a confrontarsi con le logiche
profonde che innervano la vita della comunità e ad apprendere la “grammatica”
della montagna e dei boschi regolati da eterne leggi di natura a lui
sconosciute, il Duca si trova a interrogarsi sulla sua presenza e sul suo ruolo
in un luogo che per lui era solo una soluzione di comodo, dettata dalla
pigrizia. Inizia per lui, dunque, un confronto con il proprio passato, che è
per lui il passato della propria dinastia, gli ingombranti feudatari di
Vallorgana che per generazioni hanno imposto la loro autorità (e spesso la loro
protervia) sui contadini, sui boscaioli, sui pastori, sulle servette del paese.
Affascinato e disgustato al tempo stesso dai valori e dai codici di
comportamento di un mondo in cui in cui il sangue di un individuo, nobile o
plebeo, determinava la sua esistenza, il Duca scava negli archivi familiari,
scoprendo vicende, passioni, relazioni che gli rivelano Vallorgana, e se
stesso, in una luce completamente nuova.
“Il Duca” è un romanzo epico.
Scritto benissimo, con una lingua articolata ed elegante da un autore che è storico
di professione. E ciò ben si nota dalla capacità con cui Matteo Melchiorre
racconta particolari su fascicoli, archivi, privilegi feudali, ricostruzione di
alberi genealogici e tanto altro.
Ma non è il caso di
aspettarsi un mattone indigeribile o una lezione di storia tardo medievale. Anzi,
“Il Duca” è un romanzo coinvolgente, ricco di colpi di scena ed attualissimo per
alcune riflessioni che sviluppa sul rapporto fra uomo e ambiente, sul rispetto
della natura e sui delicatissimi equilibri della montagna (i capitoli finali,
ad esempio, si sviluppano tutti attorno alle conseguenze della tempesta Vaia
che si è abbattuta sui boschi del Nord Italia nel 2018).
Difficile staccarsi dalla
lettura. E, una volta concluso, vi prenderà una terribile nostalgia di
Vallorgana.