Creso
è il re della Lidia ed è ricchissimo, anzi è il ricco per antonomasia. Anche
oggi, si dice ricco come un Creso, quando una persona è veramente ricca.
Solone
è un uomo saggio o almeno i più lo reputano così. Viene da Atene, la sua
patria, dove ha cercato di dare delle leggi giuste ai suoi concittadini, o
meglio, forse non giuste, ma, come lui stesso ha detto, “le migliori che gli
Ateniesi potessero accettare”. Ha cercato di portare la concordia nella sua
città, di appianare le lotte fra le diverse fazioni, di dare speranza anche ai
più poveri. E poi ha lasciato Atene per un viaggio, un esilio volontario
secondo alcuni, forse per curiosità di conoscere il mondo, forse per evitare
che qualcuno lo costringesse a disfare quanto aveva fatto.
Siamo
nel VII secolo a.C., poche persone viaggiano per piacere o per curiosità:
viaggiare è pericoloso, comporta disagi e incertezze, gli spostamenti
richiedono settimane, mesi, anche anni. Eppure Solone è uno dei pochi che lo
fa: è stato in Egitto, poi a Cipro.
Ora
si trova a Sardi, la splendida capitale della Lidia che sorge alla confluenza
del fiume Pattolo, in cui si dice che scorra oro.
Solone
è ospite nella reggia di Creso che gli ha mostrato, ostentato con compiacimento,
tutti i propri tesori e tutte le proprie ricchezze. Creso ci tiene a
impressionare l’ospite ateniese, ci tiene ad ottenere da lui plauso ed encomi,
così come ci tengono tutti i potenti. E ora Creso rivolge una domanda a Solone,
ma è una di quelle domande di cui sa già la risposta, o così crede. In fin dei
conti, Creso non vuole sapere realmente cosa pensa il saggio ateniese, vuole
solo che egli confermi le sue convinzioni. Ed ecco così chiede:
-
Ospite
ateniese, tu che sei tanto saggio, tu che hai tanto viaggiato e hai visto tanta
parte del mondo, tu che conosci gli uomini e i loro cuori, dimmi: conosci
qualcuno che possa essere detto il più felice di tutti?
Solone
non si lascia scomporre a queste parole. Egli è un uomo libero, un ateniese,
viene da una terra dove la gente non accetta di servire un potente e riconosce
al di sopra di sé le leggi e gli dei, ma nessun altro uomo. A Solone non
interessa adulare Creso, quindi risponde:
-
Sì,
ho conosciuto qualcuno che possa essere detto il più felice di tutti. Si
chiamava Tello, era ateniese, come me.
Un
perfetto sconosciuto. Creso è interdetto: cosa può avere un perfetto
sconosciuto che lui, Creso, non ha? Come è possibile che un perfetto
sconosciuto sia l’uomo più felice di tutti, uno che non possiede le strabilianti
ricchezze del re di Sardi? Allora Creso chiede:
-
Perché
giudichi questo Tello l’uomo più felice di tutti?
E
Solone:
-
Tello
ha avuto la vita più piena che un uomo possa avere: è vissuto in uno dei
periodi più splendidi della nostra città, ha avuto molti figli e nipoti, tutti
sani e intelligenti e tutti gli sono sopravvissuti. E ha avuto una morte
splendida: è morto in battaglia, combattendo per la sua patria, aiutando i suoi
concittadini a riportare la vittoria sui nemici. Gli Ateniesi hanno onorato il
suo valore e l’hanno seppellito con un funerale di stato.
Creso
non comprende le parole di Solone, ma non si dà per vinto, è troppo sicuro di
essere il più felice tra gli uomini e allora continua:
-
Oltre
a Tello ateniese, hai conosciuto qualcun altro perfettamente felice?
Solone
riflette. Sì, ha un’altra storia di perfetta felicità da raccontare:
-
Due
fratelli di Argo, Cleobi e Bitone. Trascorsero una vita senza privazioni e
furono entrambi belli e forti, ammirati da tutti per la loro prestanza fisica,
vincitori di gare atletiche. Erano l’orgoglio della madre che chiese per loro
alla dea Era la sorte migliore che possa toccare a un essere umano. E gli dei
l’accontentarono. Un giorno di festa i due giovani si distinsero in mezzo alla
folla per aver trainato un carro per quarantacinque stadi. Acclamati e
festeggiati da uomini e donne, banchettarono e si addormentarono felici nel
tempio. E non si svegliarono più. Non conobbero il dolore, la malattia, la
vecchiaia, neppure la paura della morte e di loro resta la memoria di due
giovani belli e forti, eternamente così. Creso, nessuno può
dirsi felice fino alla fine. Troppi sono gli avvenimenti che capitano nella
vita di un uomo, troppo variabile è la sorte e nessuno sa cosa accadrà domani.
Coloro che non hanno malattie, che non subiscono disgrazie, sono fortunati,
indipendentemente dal fatto che siano ricchi o meno. Anche un uomo ricco è
fortunato, ma anche le sue ricchezze, come tutto, sono dominio della
mutevolezza della sorte. E non esistono uomini che abbiano in sé tutte le
fortune possibili per un uomo. Come si può,
dunque, definire qualcuno felice se nulla si sa di quello che gli accadrà? Solo
chi conserverà la sua fortuna fino alla fine, concludendo la sua vita
dolcemente, solo costui potrà essere detto perfettamente felice. La felicità è
al di fuori della nostra volontà, semplicemente, è qualcosa che accade.
Creso
non è soddisfatto:
-
Solone,
tu sei uno dei più grandi saggi, eppure, mettendo in discussione ogni cosa, non
vedi il valore di quello che ciascuno ha, fintanto che lo ha.
Arrabbiato,
Creso congeda Solone. Non lo rivedrà mai più.
Come
tutti gli uomini, Creso non sa cosa lo aspetta: è ricco, potente e pensa che
nessun male possa toccarlo, non come capita agli altri uomini. Ma molte cose
impreviste stanno per accadere.
Creso
ha due figli, ma solo uno dei due, Atis, è il pupillo del padre perché
primeggia fra tutti i suoi coetanei. Una notte, però, Creso fa un sogno
terribile: suo figlio viene ucciso da un’arma di ferro appuntita e muore.
Turbato,
Creso non sa se dare retta a un sogno o non pensarci più. Forse ha un brutto
presentimento e ordina di nascondere ogni arma presente nel palazzo e impedisce
al figlio di partecipare a qualsiasi guerra.
La
sorte dell’uomo, però, è imprevedibile e accadono due avvenimenti che sconvolgeranno
la vita di Creso.
La
prima. A Sardi giunge un uomo dalla
Frigia, un tale Adrasto. Si presenta a Creso come un supplice perché non ha più
nulla. Riferisce di aver commesso un orrendo delitto: ha ucciso senza volerlo
suo fratello e per questo è stato scacciato dalla sua famiglia e dalla sua
patria e chiede protezione e ospitalità, che Creso gli concede.
La
seconda. In una zona non lontana da Sardi, la Misia, un enorme cinghiale sta
devastando i campi della popolazione, senza che nessuno riesca a fermarlo. Atis
vuole andare ad aiutare, lui e altri giovani prenderanno le armi e libereranno
i boschi della Misia da questo pericoloso animale. Creso non è d’accordo, non
ha dimenticato il sogno, ma il figlio insiste: sa di essere abile nella caccia,
è animoso, pieno di voglia di fare e di distinguersi. Inoltre, aggiunge Atis,
un cinghiale non ha le mani: quale arma mai potrà usare contro di lui? Alla
fine Creso cede e fa chiamare Adrasto:
-
Tu
hai ricevuto tanti benefici da me, ma ora è tempo che sia tu ad aiutarmi. Vai
in Misia con mio figlio, stagli accanto, proteggilo da ogni pericolo.
Ma
la sorte dell’uomo è imprevedibile. Nei boschi della Misia Atis e i suoi
compagni vedono il cinghiale e lo inseguono, gli sono addosso, oramai l’animale
è circondato e sta per essere preso. Ma uno dei giavellotti scagliati colpisce
proprio Atis che muore, così come Creso aveva sognato. Adrasto, lacerato dalla
disperazione, si uccide sulla tomba di Atis.
Passano
due anni. Creso ha osservato un lutto strettissimo per la morte del figlio. Il
dolore non cessa, ma è sazio di pianto ed è un re e ha un popolo da governare. Ai
confini della Lidia un grande impero cresce sempre di più e diviene sempre più
potente, quello dei Persiani, guidati da Ciro, figlio di Cambise.
Creso
è preoccupato e non vuole aspettare di essere attaccato, ma muovere guerra per
primo, prendendo il nemico di sorpresa. Invia dei messaggeri a consultare
l’oracolo di Apollo e il responso dell’oracolo appare chiarissimo: se Creso
muoverà guerra ai Persiani, rovescerà un grande regno.
Si
organizzano dunque i preparativi, si procurano degli alleati. Inizia
l’invasione: la prima terra contro cui muove l’esercito di Creso è la
Cappadocia ove si scontra con Ciro in una terribile battaglia in cui nessuno
esce vincitore. Da lì Ciro in breve tempo muove verso Sardi che, nel giro di
quattordici giorni, viene espugnata. Creso viene fatto prigioniero: così come
aveva predetto l’oracolo, ha distrutto un grande regno, il proprio.
Condannato
a morte, Ciro riserva al nemico un supplizio crudele: sarà arso vivo insieme ad
altri quattordici giovani lidi. Creso sale sulla pira in catene sotto gli occhi
del vincitore, una grandissima umiliazione per lui che un giorno era stato un
potentissimo re. Forse proprio per questo gli torna in mente la conversazione
con Solone in quel giorno lontano in cui non aveva conosciuto ancora tante
sofferenze e poteva credere di essere il più felice degli uomini. Sospira e
piange e per tre volte pronuncia il nome di Solone.
Ciro
sta osservando la scena. Dentro di sé prova l’ebrezza di chi pensa di essere
onnipotente, di chi sa di avere in mano le sorti degli uomini. Ma non gli
sfuggono quelle parole di Creso, che non capisce.
Immaginiamo
la scena, in tutta la sua drammaticità e bizzarria: Solone e gli altri giovani
lidi sono sulla pira, il fuoco sta già ardendo, ma non li ha ancora raggiunti.
Ciro e i suoi uomini assistono compiaciuti. Non capiscono però le confuse grida
e le parole dei suppliziati, un po’ per il frastuono, un po’ perché parlano
lingue diverse. Allora intervengono gli interpreti che, per volontà di Ciro,
interrogano Creso e lo invitano a spiegare il suo accenno a Solone e Creso
racconta tutta la storia, il suo incontro, la risposta di Solone, la sua
reazione stizzita. Tutto questo mentre le fiamme divampano sempre più violente.
Ciro
ascolta il racconto per bocca degli interpreti e dà ordine di spegnere
immediatamente il fuoco. Non è un’impresa facile, oramai il fuoco è alto, ma
per fortuna scoppia un forte temporale, forse l’ha mandato un dio, e l’incendio
si spegne. Creso è salvo, Ciro lo fa sedere accanto a sé, come suo pari.
“Creso”,
gli dice, “la tua sorte mi ha colpito: io ho avuto la superbia di mandarti a morte,
ma tu sei un essere umano come me. Anche tu un giorno sei stato potente, decidevi
della vita e della morte di altri ed eri orgoglioso della tua condizione. Ora,
sconfitto, senza più nessun avere, sei mio prigioniero e hai rischiato la vita
per mio volere. Un giorno forse questo potrebbe accadere a me perché la sorte
degli uomini è volubile. Davvero nessuno può definirsi felice, non sapendo
quale sorte lo attende”.
(libero adattamento da Erodoto, Storie, I)