Da qualche parte Fausto aveva letto che gli alberi, a differenza degli animali, non possono cercare la felicità spostandosi altrove. Un albero viveva dov'era caduto il suo seme, e per essere felice doveva arrangiarsi lì. I suoi problemi li risolveva sul posto, se ne era capace, e se non ne era capace moriva.
Perché leggere "La felicità del lupo" di Paolo Cognetti?
Il romanzo restituisce la bellezza e la fatica della montagna in una
prosa scabra e lirica al tempo stesso: nelle pagine l’autore racconta i sentieri sassosi, il disgelo sui prati erbosi, l’odore dei boschi, lo splendore
dei ghiacciai, ma anche, e soprattutto, la dimensione meno nota e poetica della
montagna, ma altrettanto reale, quella della dura vita dei boscaioli, dei
rifugisti, dei gattisti, dei cuochi, delle guide alpine, di tutti coloro che in
montagna ci lavorano e conoscono quello che gli altri non vedono.
Nel romanzo, dunque, Paolo Cognetti, che in montagna vive da sempre,
restituisce della montagna quello che davvero è, al di là della visione
edulcorata che un turista potrebbe avere. Babette, la proprietaria di un
piccolo rifugio nel paesino di Fontana Fredda, a un certo punto
afferma:
Quando per me la montagna significava libertà, vedevo libertà perfino
nelle mucche al pascolo! Ma la montagna in sé non ha nessun significato, è solo
un mucchio di sassi su cui scorre l’acqua e cresce l’erba.
Fausto e Silvia, i protagonisti, sono come tutti alla ricerca di un po’
di felicità, e la inseguono nella montagna, senza sapere dove sia né se ci sia, così come il lupo che “arrivava in una valle, magari trovava
abbondanza di selvaggina, eppure qualcosa gli impediva di diventare stanziale,
e a un certo punto lasciava lì tutto quel ben di dio e se ne andava a cercare la felicità da un’altra
parte”.
Ma, al di là delle speranze degli uomini, la montagna non ha niente di tutto ciò, nessuna felicità da offrire. E’ solo “vento, sole, neve”, come spiega la guida Pasang a Silvia. Ed è proprio in questa capacità di rivelare la dimensione essenziale delle cose che la montagna si rivela nella sua sconfinata bellezza.
Ma, al di là delle speranze degli uomini, la montagna non ha niente di tutto ciò, nessuna felicità da offrire. E’ solo “vento, sole, neve”, come spiega la guida Pasang a Silvia. Ed è proprio in questa capacità di rivelare la dimensione essenziale delle cose che la montagna si rivela nella sua sconfinata bellezza.
Di cosa tratta?
Fausto e
Silvia si trovano entrambi a lavorare come stagionali in un ipotetico paesello
di montagna, Fontana Fredda, dove il locale di Babette è un punto di ritrovo
per sciatori stanchi e affamati, forestali, gattisti, cacciatori.
Fausto è il
cuoco, Silvia la cameriera. Fausto ha quarant’anni e ha alle spalle una vita
complicata di aspirante scrittore e di marito abbandonato e forse tradito.
Silvia è una ragazza di ventisette anni e “non era il tipo di ragazza che ti
aspettavi di trovare tra i montanari: giovane, allegra, aria da giramondo, a
vederla portare polenta e salsicce sembrava un segno dei tempi pure lei come le
fioriture fuori stagione, o i lupi che si diceva fossero tornati nei boschi”.
Il rifugio di
montagna di Babette diviene per loro l’occasione di fuga e, appunto, di
rifugio: una pausa dall’esistenza o forse, chi lo sa?, una nuova esistenza. Fra i piatti di pasta in bianco e le stoviglie
da grattare i due diventano amanti, fino a che, un lunedì di Pasqua, la
stagione sciistica finisce e ognuno riprende la sua strada, Fausto come cuoco
in Trentino, in mezzo ai taglialegna, e Silvia come cameriera –factotum al
rifugio Quintino Sella, al Monte Rosa. Nel momento del distacco lei gli regala
un libro, Trentasei vedute del monte Fuji di Hokusai, il “vecchio pazzo per la
pittura”. Si incontreranno di nuovo? Sapranno intrecciare le loro vite?
Cognetti,
come già in Le otto montagne, costruisce una storia di “destini incrociati”, di
personaggi che si attraggono e si sfuggono, fra i poli della città, lontana
sullo sfondo (la grigia Milano) e la montagna con i suoi paeselli minuscoli e
la natura sublime e feroce. Il rifugio diventa nel romanzo il luogo per
eccellenza di incontro dei “destini incrociati”, di gente che va, di gente che
viene, di gente che passa fugacemente per una notte, di chi resta per sempre.
Attorno a Fausto e Silvia si muovono altre storie: Santorso, il montanaro che
sa tutto della valle, Babette, di cui nessuno ricorda più il vero nome, lo
sherpa Pasang, gente del paese, alpinisti sfortunati.
Sullo
sfondo, imperturbabili, le montagne: gli uomini faticano, desiderano, sognano,
si amano e muoiono, mentre la natura
procede inesorabile con il suo ciclo di nevicate, freddo, valanghe, disgelo,
fioriture, alpeggi e foglie che cadono.
Così è il
monte Fuji ritratto dal “vecchio pazzo per la pittura”:
Ogni veduta
aveva un titolo con il nome della località e la descrizione della scena. Erano
tutti contadini, pescatori, falegnami, carpentieri, impegnati nel lavoro e
quasi sempre inconsapevoli della montagna che li sorvegliava, a volte enorme
sopra le loro teste e a volte minuscola all’orizzonte. In una veduta alcune
donne eleganti indicavano il Fuji dal terrazzo di una sala da tè. E in un’altra
alla fine del libro c’era solo la montagna, a tutta pagina.
Però il
cuoco e la cameriera non ci sono, disse Fausto.
No? [disse
Silvia]
E neanche
gli amanti.
Be’, noi lo
sappiamo che ci sono .