Come stupirsi che il secolo si compiacesse dell'opera propria e vedesse in ogni nuovo decennio solo un gradino verso un decennio migliore? Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi.
Nel libro, la storia dell’uomo e dell’artista Stefan Zweig si intreccia con grande scioltezza con l’attenta ricostruzione degli avvenimenti della Storia europea dalla nascita dell’autore, avvenuta a Vienna nel 1881, fino al primo settembre del 1939, momento all’altezza del quale Zweig interrompe la narrazione. Il racconto mira a ricostruire l’atmosfera spirituale dell'Austria e, soprattutto dell'Europa, in un periodo di metamorfosi radicali, come Zweig stesso le definisce, in cui gli uomini sperimentarono, nel giro di una generazione, “la più spaventosa sconfitta della ragione e il più selvaggio trionfo della brutalità”.
L’ispirazione che sta alla base del racconto non è altro che la constatazione della fine di un’epoca, “l’età d’oro della sicurezza”, in cui era stato possibile conoscere “il grado e la forma più alta della libertà individuale”, sospesa con la folle esperienza della prima guerra mondiale e definitivamente conclusa con l’inizio della seconda.
L’età d’oro della sicurezza era stata, a parere di Zweig, l’età d’oro dell’Europa, in cui, a dispetto dei nazionalismi che progressivamente si affermavano, era possibile godere di una cultura europea e sentirsi, non semplicemente cittadino del proprio paese, ma anche europei.
Dell’Europa nel passaggio fra l’Ottocento e gli inizi del Novecento, Zweig offre un quadro splendido, arricchito dai mille aneddoti che derivano dalla sua esperienza in quanto, come acutamente osserva, l’atmosfera spirituale di un’epoca si manifesta, più che negli avvenimenti ufficiali, nei piccoli episodi personali.
“L’Europa di un tempo si compiaceva serena del suo multicolore caleidoscopio”, scrive Zweig. La città simbolo di questo caleidoscopio è, ai suoi, occhi, Parigi, città “miracolo d’armonia” in cui il giovane scrittore si recò a vivere una volta conclusi gli studi universitari.
Dopo Londra, l’Italia, poi la Spagna, il Belgio.
Ogni nazione europea è associata, a un incontro, a una persona, a un’amicizia, giacché “ non si può conoscere un popolo o una città nella sua ultima essenza più riposta attraverso i suoi libri e neppure con la visita più accurata, ma soltanto sempre per il tramite dei suoi uomini migliori”. Zweig ha un anedotto da raccontare su molti degli artisti e intellettuali del primo Novecento: Léon Bazalgette, Émile Verhaeren, Rainer Maria Rilke, Aguste Rodin, W. B. Yeats, e tanti altri.
Nel cuore dell’Europa, però, si trova l’amatissima Austria, ultimo avamposto fin dall'antichità di una cultura dai caratteri suoi peculiari: Vienna era stata costruita dai Romani come castrum e aveva costituito a lungo il confine dell’unificato imperium romano contro i barbari, era stata anche il baluardo contro cui si era infranto l’assalto ottomano. L’impero asburgico aveva contribuito a fondere “armonicamente” elementi etnicamente a culturalmente tedeschi, slavi, ungheresi, spagnoli, italiani, francese, fiamminghi.
Tutto accade quasi inconsapevolmente, mentre ciascuno è occupato a vivere la propria vita, senza rendersi conto che, un fatto banale dopo l’altro, ci si avvia incontro alla Storia.
Il giorno dell’attentato di Sarajevo, Zweig si trova a Baden, una cittadina presso Vienna. Una giornata comune, come tante altre, nel pieno dello splendore di giugno: Zweig siede tranquillo in un parco, leggendo, attorno a lui grandi e piccini intenti a godersi la giornata estiva. Tutto ad un tratto l’orchestrina che suona interrompe la musica nel mezzo di una battuta, la folla si accalca attorno a un manifesto: l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando e sua moglie sono stati assassinati. Un paio di ore di sconcerto, nulla più, e alla sera tutto è già dimenticato, la gente riempie di nuovo le strade, ridendo e chiacchierando fino a tarda sera. “L’estate era più bella che mai, noi tutti guardavamo il mondo senza preoccupazione”.
Innanzitutto l’ottimismo eccessivo, unito a, anzi alimentato da una fede irrazionale nel progresso, quasi che il progresso scientifico fosse necessariamente destinato a portare con sé un miglioramento morale.
Ma accanto a ciò, Zweig scorge un altro elemento alla base delle tragedie degli anni a venire: una sorta di freudiano “disgusto della civiltà”, come se il dinamismo interiore accumulatosi nei decenni nella floridissima Europa necessitasse di esplodere in uno sfogo violento.
I difficili anni del primo dopoguerra sono sempre raccontati dal punto di osservazione dell’Austria. Zweig si trova nella sua casa di Salisburgo: a causa dell’inflazione galoppante, in Austria un uovo costa quanto in passato un’automobile di lusso, in Germania quanto “il valore catastale di tutte le case di Berlino”, il pane nero, la gente che dà la caccia agli scoiattoli per riuscire a mangiare carne. Eppure, “la volontà di vita si dimostrò più forte che la labilità del denaro”, tanto che nel decennio dal 1923 al 1933, dalla fine dell’inflazione alla presa del potere da parte di Hitler, si poté anche sperare che la vita fosse ripresa come prima.
L’ascesa di Hitler avviene in sordina, senza che nessuno presti seriamente attenzione alla sua crescente autorità. Ammette serenamente Zweig: “per una legge ineluttabile della storia è negato proprio ai contemporanei di riconoscere sin dai primi inizi i grandi movimenti che determinano l’epoca loro; così io non riesco a rammentare quando abbia udito per la prima volta il nome di Adolfo Hitler.” Molti lo ritenevano un “sobillatore da birrerie”, tutt’al più un “luogotenente provvisorio” di un regime episodico. Altri ripetono la formula consolatrice: ”non può durare a lungo”.
Il
povero paese mutilato e dilaniato, mentre i suoi sovrani avevano un giorno
dominato l’Europa, fu proprio, lo debbo ripetere, la pietra angolare. Per me era
chiaro ciò che tutti i milioni di cittadini londinesi ignoravano, che insieme
all’Austria avrebbe dovuto cadere la Cecoslovacchia, e che i Balcani sarebbero
divenuti aperta preda di Hitler, che il nazionalsocialismo prendendo Vienna, in
grazia della sua particolare struttura, avrebbe avuto in mano la leva con cui
sollevare dai cardini l’Europa intera.
La narrazione si interrompe a questo punto perché qui appunto finisce il mondo che Zweig aveva conosciuto, amato e descritto. Lo scrittore, pur nell'immensa tragedia, si rende conto che la fine di un'epoca significherà, col tempo, l'inizio di una nuova, ma non troverà la forza di attraversare i "purgatori e gli inferni" che necessariamente bisognerà incontrare per giungere fino ad essa, scegliendo dunque la via del suicidio. Solo nella speranza che possa riprendere il corso del progresso umano, anche se a tratti interrotto e sospeso, diviene pensabile la prospettiva di una futura rigenerazione morale.
Non riesco a rinnegare totalmente la fede della mia giovinezza: che un giorno, cioè, malgrado tutto, la grande ascesa debba riprendere. Anche dagli abissi dell’orrore nel quale oggi ci moviamo […], io torno pur sempre ad alzare lo sguardo verse le antiche costellazioni che scintillavano nel cielo della mia infanzia e mi conforto con la fede innata che un giorno questa nostra ricaduta debba apparire soltanto un intervallo nel ritmo dell’eterno progredire.