H. G. Wells è da molti
considerato il padre della narrazione fantascientifica grazie a romanzi di
grande coraggio immaginativo come La macchina del tempo e La guerra dei mondi. Wells
fu, infatti, un uomo profondamente affascinato dalla scienza, a cui arrivò dopo
un tortuoso percorso di studi da autodidatta, allorché ottenne nel 1884, all’età
diciotto anni, una borsa di studio in biologia presso la presso la Normal
School of Science di Londra. La positivistica fiducia nella scienza e nel
progresso che pervade larga parte del XIX secolo aveva già ispirato negli anni
Sessanta dell’Ottocento la fervida immaginazione del francese Jules Verne, che
aveva fatto divenire la scienza la
chiave di volta di storie oggi celeberrime come Viaggio al centro della terra, pubblicato nel 1864, e Dalla terra alla luna, edito nell’anno
successivo.
L’esperienza alla Normal
School of Science si rivelò fondamentale per la carriera di romanziere di Wells
che, dalle idee con cui venne a contatto durante gli anni di studio, trasse
stimoli che ispirarono la nascita di alcune delle sue opere più famose. In
particolare, alla School of Science Wells ebbe l’occasione di seguire le lezioni
di Thomas Henry Huxley, personalità in vista del mondo scientifico britannico e
assai noto per il suo fermo sostegno alle teorie di Charles Darwin, all’epoca
oggetto di acceso dibattito e bersaglio di diffuso scetticismo. Wells, affascinato
dalla personalità di Huxley, uscì dalle sue lezioni con la profonda convinzione che la specie
umana sia il prodotto finale di una lunga evoluzione, niente più di una fra le
tante specie esistenti nel mondo animale, soggetta come tutte le altre a
imprevedibili sviluppi futuri.
Cosa vi sarà al termine
dell’evoluzione dell’essere umano? Cosa accadrà quando l’umanità sarà estinta?
E soprattutto, quali sono i caratteri distintivi della specie umana che la
rendono diversa dalle altre specie? Queste domande, su cui possiamo immaginare
che il giovane Wells abbia avuto occasione di riflettere più volte nel corso
dei suoi studi, sono le stesse che egli innesterà poi nei suoi racconti, cercando
di condurre a compimento, tramite il libero sfogo della fantasia, la ricerca
razionale di una risposta. In particolare, queste questioni sono affrontate in
due opere, composte una di seguito all’altra, allorché Wells, conseguita la
laurea nel 1891, inizia a dedicarsi in modo sistematico alla scrittura. Si
tratta de La macchina del tempo, pubblicata nel 1895, short story che
consacrerà il suo autore al successo del grande pubblico, e L’isola del dottor
Moreau, pubblicata nell’anno successivo.
La macchina del tempo racconta la
storia di uno scienziato, chiamato semplicemente il Viaggiatore nel Tempo, che
realizza un macchinario in grado di muoversi avanti e indietro nel tempo. Così
come è possibile muoversi nello spazio, spiega il Viaggiatore, è infatti
possibile spostarsi nel tempo che dello spazio “è realmente solo la quarta
dimensione”. Approdato casualmente nell’anno 802.701, il Viaggiatore ha
l’occasione di osservare la tappa finale dell’evoluzione dell’umanità: la terra
è abitata dagli Eloy,“squisite creature” rigorosamente vegetariane,
eternamente giocose e felici, ma deboli, minute, scarsamente intelligenti. Gli
Eloy vivono in un mondo apparentemente ideale.
Non vi erano zanzare
nell’aria, né erbacce o funghi sulla terra; ovunque crescevano frutti dolci,
fiori deliziosi e qua e là svolazzavano farfalle dai colori vivaci. La medicina
preventiva era diventata una realtà: le malattie erano state sconfitte; […] Si
erano ottenuti anche dei trionfi sociali: l’umanità del futuro abitava in
splendidi alloggi, era sontuosamente vestita e non trovai un solo essere
occupato in un lavoro faticoso di qualsiasi genere. Non vi erano segni di
lotta, né sociale né economica. […] Il problema dell’aumento di popolazione era
stato risolto e la popolazione aveva smesso di aumentare.
Il Viaggiatore del tempo
arriva però in fretta a concludere che la debolezza degli Eloy è proprio il
frutto della raffinata civiltà in cui vivono.
Per la prima volta
incominciai a capire le strane conseguenze degli sforzi sociali nei quali siamo
impegnati: eppure, se ci pensiamo, sono conseguenze abbastanza logiche: la
forza deriva dalla necessità, la sicurezza porta alla debolezza. L’opera di
miglioramento delle condizioni di vita – il vero processo di civilizzazione che
rende la vita sempre più sicura- era giunto gradatamente al vertice; i trionfi
dell’umanità unita sulla natura si erano seguiti. […] E il risultato era ciò
che vedevo! […] Dopo la battaglia viene infatti la pace. L’umanità era stata
forte, energica, intelligente e aveva speso tutta la sua abbondante vitalità
per trasformare le condizioni di vita nelle quali viveva. Ora vi era la
reazione a queste mutate condizioni di vita.
Per quanto l’uomo cerchi
di correggere e dominare la natura, in buona parte riuscendoci, essa alla fine,
così deve constatare il Viaggiatore del Tempo, riprende la supremazia che le
spetta: l’essere umano può annullare la selezione naturale grazie alla scienza
e al progresso, ma il risultato finale sarà una creatura di una debolezza tale
che sarà cancellata da quella natura che pensava di avere sottomesso. Il “correttivo”
naturale è costituito dall’altra schiera di individui che abita l’anno 802.701, i
Morlocchi, esseri mostruosi che vivono in anfratti della terra. Il Viaggiatore
del Tempo non si accorge subito della loro esistenza: i Morlocchi escono dalle
loro tane solo in piena notte e apparentemente sono gli schiavi degli Eloy, al
cui benessere provvedono con il loro lavoro. Anch’essi costituiscono l’ultimo
stadio dell’evoluzione umana, ma sono
così differente dagli Eloy in quanto discendenti delle classi sociali meno
abbienti, cioè di quell'ampia fascia di non privilegiati che non hanno beneficiato
dei vantaggi del progresso, ma che, anzi, sono stati sospinti ai margini della
società, e dell’umanità, da un’élite sempre più raffinata e sempre più chiusa
in sé stessa.
In realtà proprio i
Morlocchi i veri vincitori della lotta per la sopravvivenza alla base dell’evoluzione,
gli unici che, in quanto costretti dalla necessità, conservano vigoria fisica e
astuzia. La loro sottomissione agli Eloy è funzionale al loro interesse, dal
momento che le fragili creature vengono tenute in vita dai mostri solo perché poi
se ne possano cibare. L’anno successivo allo
strepitoso successo de La macchina del tempo, H. G. Wells continua a sondare i
confini dell’umano in un’altra short story, L’isola del dottor Moreau. Anche
questa volta il protagonista della vicenda è uno scienziato, il dottor Moreau, un anziano
fisiologo spinto ai confini del lecito dal desiderio di conoscenza e dall’orgoglio.
Il romanzo si presenta
come un racconto di peripezie ricche di suspense in luoghi ai confini del mondo
conosciuto. Nel 1887 un uomo scompare in
un naufragio, inghiottito dall’oceano; undici
mesi e quattro giorni dopo Edward
Prendick, questo il nome del naufrago, viene raccolto da un’imbarcazione nella stessa
parte dell’oceano. L’unica terra conosciuta fra quelle acque è un isolotto
vulcanico disabitato. Prendick racconta ai suoi salvatori le sue avventure, al
di là del credibile, venendo preso per pazzo. Apprendiamo così che Prendick, salvato
miracolosamente da morte sicura da una goletta,
era stato costretto a sbarcare su un’isola abitata solo da due uomini ,
un tale Montgomery e, appunto, il dottor Moreau, caduto in discredito presso la
comunità scientifica internazionale per la crudeltà degli esperimenti da lui condotti
sugli animali. Sull’isola si muovono esseri viventi dall’aspetto singolare,
difficilmente definibili come animali, vagamente simili all’uomo, anche se ben
lontani dall’esserlo. In un crescendo di scoperte sempre più orrorifiche,
Prendick arriva ben presto a comprendere la natura degli esperimenti condotti
da Moreau sull’isola: trasformare gli animali in esseri umani. A questo fine il
fisiologo sottopone le bestie che vivono sull’isola a una lunga serie di
operazioni che mirano a mutarne l’aspetto e impone poi loro delle norme in modo
da formare in essi una coscienza morale. La catastrofe finale si delinea
progressivamente nella storia: come già il Viaggiatore del Tempo, anche
Prendick deve constatare che alla fine la natura prevale sempre sulla civiltà,
allorché gli istinti sanguinari e ferini del popolo delle belve esplodono
incontenibili.
Anche l’uomo, racconta
Prendick alla fine della sua terribile avventura, è dunque solo una bestia fra
le bestie:
Quando abitavo a Londra l’orrore
mi era quasi insopportabile. Non potevo liberarmi dagli uomini; […] se uscivo
per la strada […] operai stanchi e pallidi mi oltrepassavano tossendo, con gli
occhi infossati e il passo ansioso, come cervi feriti che perdano sangue. […]
Se entravo in una biblioteca, gli studiosi curvi sui libri mi davano l’impressione
di belve accoccolate in attesa della preda. […] E anch’io non ero un essere
ragionevole, ero anch’io un animale, tormentato da una strana malattia nel
cervello che mi spingeva a vagare solo come una pecora.
Quali sono, dunque, i fragilissimi baluardi che delimitano il
confine fra l’uomo e gli altri esseri animali? Moreau lo spiega chiaramente a
Prendick. Il primo è la legge morale (in definitiva nient’altro che “una
modificazione artificiale o pervertimento dell’istinto”), quella che Moreau
cerca inutilmente di insegnare alle sue bestie, quella che i Morlocchi hanno completamente
smarrito. Il secondo baluardo della nostra umanità è la parola, in cui tutta
consiste “la grande differenza fra l’uomo
e la scimmia, nell’incapacità di quest’ultima di modulare simboli sonori dalle
mille sfumature con cui il pensiero possa essere espresso”. Ed è alla parola che Prendick affida la memoria delle proprie scoperte, a uno scritto, apparentemente
non destinato alla divulgazione, pubblicato dal nipote di Prendick e consegnato
a noi lettori: un modo per affermare di essere ancora un essere umano, dopo aver compreso la labilità della sua condizione. Esattamente quello che fece H. G. Wells coi suoi romanzi.